Translate

giovedì 31 ottobre 2013

Cambogia, non è un paese per falsi progressisti

di Antonio Scorsato su LaStampa 29/10/2013



<Cosa hai fatto quest'estate?>.
<Sono stato in Cambogia>. Questo è il commento che riceverete dal milanese falso progressista reazionario di sinistra quando lo informerai di aver visitato il più disgraziato Paese del Sud-Est asiatico.
<Beeeello!>, esclamerà con occhi sgranati per lo stupore e le labbra dischiuse dal desiderio quel tipico esponente della nuova classe, creativa, e cosmopolita di casa nostra.

E tu, allora, capirai, se per caso non lo avessi capito, che il turismo è soltanto un immenso equivoco. Anzi, è forse il principale sistema escogitato dalla tarda modernità per equivocare il mondo.

<BELLO UN CAZZO!>, ti verrebbe voglia di rispondergli mentre lui vagheggia risaie indimenticabili o disquisisce del pepe di Campot. Ti trattieni e mediti sui viaggi intercontinentali quali dispositivi evoluti di cecità organizzata che consentono di giungere in qualsiasi angolo del pianeta senza mai uscire davvero di casa, di giungervi come a un ennesimo parco giochi dello spirito e della vita ottusa.

La cambogia potrebbe, infatti, essere legittimamente definita:

  • affascinante
  • conturbante
  • seducente
  • ammaliante
  • arcana
  • e perfino sublime
ma <beeella> proprio no. E non è solo un deficit lessicale a farcela definire tale.
E' un crampo mentale. Il turista falso progressista, provenendo da Milano, Parigi o Colonia - cioè da un mondo agiato che si ritiene ormai del tutto "inautentico", motivo per cui tributa il proprio culto farisaico a ogni idolo di autenticità - giunto in luoghi come la Cambogia si illude di poter finalmente entrare in contatto con la realtà perché si immagina che la miseria sia l'unica cosa "reale" al mondo.
E dunque non la vede, ne ignora il fondo tragico, ne manca il risvolto violento. Insomma, il fatto che sia possibile per un numero crescente di turisti viaggiare in Cambogia percependola come un pittoresco paese esotico d'incantevoli paesaggi idillici primitivismi dimostra come l'incapacità di fare esperienza sia divenuto l'habitus dell'individuo occidentale di inizio millennio.
Quella che gli appare come incontaminata purezza è, invece, il risultato della radicale distruzione su vasta scala di un intero paese operata:
  • dai B-52 americani
  • dai khmer rossi
  • e da trent'anni di guerra civile.
La Cambogia, è, infatti, ancora oggi, ad avere occhi per vedere, un paese assiso sul cumulo delle proprie fumanti macerie.

Ad avere ancora occhi per vedere, se giungi a Phnom Pehn da Singapore, potrai fare esperienza del passaggio rapido e brutale dall'incubo realizzato del capitalismo avanzato ai sogni infranti del comunismo perduto. Decollerai dall'aeroporto più bello del mondo - moquette a terra, giardini botanici indoor, efficienza impareggiabile - e, dopo un'oretta di volo, atterrerai su una pista desolata, un prefabbricato senza aria condizionata e una schiera di stracchi funzionari vagamente sovietici a timbrarti il passaporto. Alle spalle ti sarai lasciata la metropoli in cui si concentra buona parte della ricchezza finanziaria orientale, un posto dove è reato gettare in terra una cicca, dove una birra costa 12 euro, dove i centri commerciali sono autentiche opere d'arte e lo shopping nei grattacieli ha soppiantato l'esperienza estetica, dove hanno estirpato la foresta pluviale e poi l'hanno riprodotta in vitro dentro immense serre ad aria condizionata, e davanti a te avrai la città terremotata da un'immane tragedia politica. Al decollo l'urbe ipermoderna come esperimento da laboratorio perfettamente riuscito, all'atterraggio la palestra arcaica dell'esperienza totalitaria sul vivente perfettamente fallita. Un'ora prima un corpo di lusso levigato dalla dittatura di Stato, un'ora dopo il corpo martoriato dalla totale assenza di Stato. In mezzo, a dividerle, il maestoso spettacolo del Mekong che srotola il suo placido, solenne corso fino a perdita d'occhio.

Phnom Pehn è una città esplosa e mai più ricomposta. Considerata un tempo la più bella delle tra capitali francesi d'Indocina, crebbe progressivamente fino a 500 mila abitanti durante il pacifico regno di Shianouk, poi, nella prima metà degli Anni '70, quando i bombardamenti a tappeto degli americani sui contadini inermi delle regioni orientali non lasciò loro altra scelta che non fosse quella di arruolarsi con i khmer rossi o esodare verso la capitale - e, in entrambi i casi, rischiare di morire -, esplose fino a quasi tre milioni di persone, quasi tutti i profughi senza assistenza, né dimora, né fonti di sostentamento.
Una volta preso il potere, però, Pol Pot la svuotò di nuovo. Attuando il suo programma rivoluzionario di trasformare l'intera Cambogia in una coperativa agricola, dopo aver abolito il corso della moneta, il sistema postale e chiusi gli ospedali (anch'essi, simbolo della modernità corrotta), forzò l'intera popolazione della capitale a trasferirsi nelle campagne, dove buona parte di essi sarebbe morta di stenti e di malaria. In quei giorni, decine di migliaia di esponenti della classe colta furono semplicemente sterminati (si dice che chiunque portasse gli occhiali fosse immediatamente assassinato). Il ripopolamento cominciò soltanto negli Anni '90, sulla stessa base di violenze caotiche migrazioni di massa. Oggi siamo di nuovo a 2 milioni e mezzo di persone.

Una storia terribile che si prolunga fino al presente. Se ti fosse capitato di sbarcarvi il 20 Luglio 2013, come è capitato a chi scrive, acciuffato uno dei pochissimi taxi in circolazione - a Phnom Pehn non esiste trasporto pubblico - ti saresti ritrovato in un colossale ingorgo causato dai rally dei militanti politici mobilitati per le imminenti elezioni. migliaia di ragazzi inneggianti alle onnipresenti effigi di Hun Sen, l'uomo forte che governa Phnom Pehn dal 1985. lo stesso uomo che la distrusse assieme ai khmer rossi di cui faceva parte quando, dopo aver person un occhio nella battaglia per la capitale, vi entrò trionfante al seguito di Pol Pot nel 1975 (salvo poi disertare per rifugiarsi in Vietnam  due anni dopo). E', infatti, ancora il suo volto sinistro  che molti ventenni cambogiani sbandierano oggi in sella ai loro scooter di fabbricazione vietnamita mentre impazzano per giorni sgasando tra strade dissestate attorno al Russian Boulevard in frastornanti caroselli elettorali.

Quella storia terribile, d'altronde, la ritrovi un po' ovunque. La ritrovi nel Museo Tuol Sleng, l'ex liceo trasformato dal Pol Pot nel principale centro di detenzione e tortura del Paese (vi furono seviziate a morte 17 mila persone). La ritrovi nelle minuscole aule completamente spoglie, dominate soltanto da brande metalliche cui ammanettavano i torturati, piccoli antri di una ferocia rudimentale, cavità di una storia in cui l'umanità si è ridotta alla compenetrazione tra un addome, una clavicola o a una nuca e una ferraglia spuntata, la ritrovi soprattutto nel perdurante assuefazione alla crudeltà da parte dei cambogiani che consente ai turisti di scattare foto ricordo di se stessi in un tale sacrario del dolore estremo (lo ha fatto, vergognandosene ora e allora, anche chi scrive e mai si sarebbe sognato, per dire, di lasciarsi fotografare davanti alle matasse di capelli o di occhiali di Auschwitz).
La ritrovi, però, anche nella sera in discoteca. Nella ragazza che ti digita sul suo cellulare il suo nome khmer perché tu lo possa imparare ma si schermisce quando tu le digiti il tuo. Capirai che non sa ne leggere ne scrivere, come la stragrande maggioranza delle sue coetanee perché, cresciuta nel Paese in cui Pol Pot aveva sterminato chiunque avesse un istruzione, non ha avuto nessuno che glielo potesse insegnare.

Il catalogo potrebbe continuare. Così come potrebbero iniziare il racconto delle tante meraviglie - a cominciare dai tempi di Angkor - che fanno della Cambogia una paese letteralmente meraviglioso. Anche io, lungi dal voler dissuadere, ne consiglio la scoperta. A patto di non definirlo <BEEEELLO!> dopo aver gettato uno sguardo distratto sul suo abisso.


Commento

Cari amici. Per quanti altri paesi si potrebbero fare gli stessi ragionamenti? In quanti altri paesi molti di noi turisti non capiamo la miseria? Cosa pensiamo quando per turismo ci rechiamo in posti lontani lontani dal primo mondo e vediamo la disperazione? Credo nulla quasi fosse una cosa di cui non vale la pena accorgersi o al massimo, colti da pietismo progressista, a tratti pseudocristiano se non totalmente ipocrita, diciamo "poverini". E non pensiamo, cari amici, che tale miseria riguardi soltanto il Sud del mondo. No signori, ormai è qui nel primo mondo USA, Inghilterra, Francia, .... Sì signori miei, avete capito bene: proprio quei paesi come Massimo Fini (nell'articolo da me riportato sul blog) ha fatto notare, in cui «...c'è del marcio, Ma noi, ostinatamente, cocciutamente, cretinamente, vogliamo continuare a credere che sia «il migliore dei mondi possibili».
In cosa consiste la bellezza di un paese e con quali parametri noi la definiamo?
Parlerò solo di ciò che penso.
Per quanto siano magnifici i paesaggi, la natura, gli edifici antichi o altre "meraviglie" di un qualsisia paese non li reputo condizione sufficiente per farmi dire che un paese sia <BEEEELLO!>.
Da come stanno gli "ultimi", ecco ciò che mi fa dire oppure no se un paese è bello, e non parlo solo della condizione materiale comunque necessaria ("Primum vivere deinde philosophari" dicevano i Romani) ma anche da quella spirituale. E' certamente palese la gravità di entrambi gli aspetti in Cambogia e nei paesi limitrofi.
Per una medesima ragione anche il primo mondo si sta terzomondizzando spiritualmente e materialmente. Tale ragione è la tolleranza tipica del, come lo ha definito Antonio Scorsato, falso progressista reazionario di sinistra oppure tipico esponente della nuova classe, creativa, e cosmopolita di casa nostra, quella tolleranza che non mi stancherò mai di ripetere, è tipica di quello stesso mondo ritenuto da noi coglionamente «il migliore dei mondi possibili». Questa tolleranza è soltanto egoismo o menefreghismo della condizione altrui. Se noi continueremo a tollerare ogni cosa in nome di una libertà assoluto arriveremo al punto che ci faranno tollerare persino la schiavitù, come se la cosa non stesse già accadendo in altre parti del mondo, risultato più o meno previsto della globalizzazione.



Aristotele diceva: "l'indolenza e la tolleranza sono le ultime virtù di una società decadente". Cari amici, i risultati di queste virtù li stiamo già vedendo da parecchio tempo, sarebbe abbastanza stupido continuare di proposito a non vedere ciò che succede nel nome di questa Dea Tolleranza, nuova divinità venerata dall'uomo illuminista.

Riccardo Ing.







Nessun commento:

Posta un commento